Vi siete mai chiesti come facciamo a smettere di sanguinare dopo esserci tagliati? È un processo abbastanza complicato, ma alla cui base c’è un solo protagonista: le piastrine. Queste piccole cellule funzionano come un tappo su una ferita, arginando il sanguinamento. Per far ciò, le piastrine hanno bisogno di unirsi tra loro – in termini medici, di aggregare. Ma cosa succede quando le piastrine non funzionano?
Esistono alcune malattie in cui le piastrine vengono prodotte in modo inadeguato in termini quantitativi o qualitativi, determinando difetti nel processo in grado di arrestare la perdita di sangue. Sembra un problema banale ma, se l’entità del sanguinamento fosse più cospicua di un semplice taglietto, si potrebbe potenzialmente rischiare la vita… motivo per cui bisogna correre ai ripari. In che modo?
Una delle possibili terapie per far fronte a queste patologie è rappresentata da periodiche trasfusioni di piastrine. Queste funzionano più o meno come delle comuni trasfusioni di sangue, ma in questo caso si procede a separare i componenti del sangue contenuti nella sacca donata per utilizzare solo la parte necessaria al paziente, facendo sempre attenzione che ci sia compatibilità tissutale tra chi dona e chi riceve. Sembra un procedimento semplice e anti-spreco, vero? E invece no.
Il problema principale delle trasfusioni di piastrine è la loro labilità: una volta separate dal resto del sangue, devono essere conservate a 22°C in modo tale da non indurre il processo di aggregazione ancor prima di essere trasfuse, ma a questa temperatura sono esposte ad un forte rischio di contaminazione batterica, motivo per cui dopo solo 5 giorni risultano inutilizzabili. Per di più il rischio di aggregazione non le rende idonee al trasporto né in ambulanza, né in aereo, né in elicottero. Sembra un problema insolubile, ma forse esiste uno spiraglio di luce in fondo al tunnel.
Nel 2012 il premio Nobel giapponese Shinya Yamanaka ha scoperto infatti delle cellule chiamate iPS (induced Pluripotent Cells), ovvero cellule staminali prodotte a partire da cellule mature del nostro corpo (della pelle ad esempio): in laboratorio le iPS vengono ulteriormente modificate per ottenere piastrine artificiali, ex vivo, trasfondibili senza necessità di donatori, trasporti o laboriose procedure di conservazione. Questa scoperta potrebbe permettere di ovviare il problema della scarsa reperibilità di piastrine da trasfondere, ma c’è prima un altro cavillo da risolvere.
La procedura di produzione di piastrine da cellule iPS ha infatti un costo non indifferente: un batch di iPS, contenente circa 500 mila cellule, costa poco meno di due mila dollari, ai quali bisogna aggiungere i costi dei salari, del materiale utilizzato e dei macchinari di laboratorio tanto sofisticati quanto cari… Una sacca di piastrine da donazione, d’altro canto, contiene circa 320 miliardi di piastrine, a fronte di un costo alla Sanità che va dai 400 ai 1000 dollari. Risulta chiaro il motivo per cui gli ospedali preferiscano avvalersi della seconda opzione, specie a seguito delle perdite economiche subite durante la crisi pandemica.
La pandemia di COVID-19 ha inoltre drasticamente impattato la ricerca in questo campo: i finanziamenti disponibili sono infatti stati dirottati verso la produzione di terapie per contrastare il virus. Al contempo, però, la crisi sanitaria ha esacerbato le difficoltà di repere dei donatori di sangue, importantissimi per le terapie di plasmaferesi anti-Covid, riportando l’attenzione sulla necessità di produrre ex vivo componenti sanguigni trasfondibili per far fronte alla penuria di donazioni.
La produzione ex vivo di piastrine permetterebbe per di più di abbattere il problema della compatibilità tra donatore e ricevente tramite prelievo delle cellule iPS direttamente dal paziente, oltre che ovviare il problema etico dell’utilizzo delle cellule staminali ottenute dai cordoni ombelicali.
Scopriremo in futuro se questa frontiera avrà successo, nel frattempo, però, fate attenzione a non tagliarvi.